Tomaso Montanari
Una cosa bisognerebbe, finalmente, cambiare alla Biblioteca Nazionale di Napoli: l’intitolazione all’indegno re Vittorio Emanuele III, complice di Mussolini, firmatario delle leggi razziali e vile fuggiasco l’8 settembre. E bisognerebbe intitolarla invece a Benedetto Croce, che da ministro della Pubblica Istruzione, nel 1920 ottenne di spostare quell’antica raccolta (nata intorno al nucleo Farnese, portato a Napoli da re Carlo) nella parte più “recente” di Palazzo Reale, dove furono poi condotte molte altre biblioteche storiche napoletane, destinando invece a museo il nucleo più antico della reggia vicereale e borbonica.
Invece oggi, in quest’epoca senza memoria e senza progetto, il Ministero della Cultura (oh, l’importanza delle etichette: specie di quelle propagandistiche) ha deciso di abbattere proprio il progetto di don Benedetto, strappando la Biblioteca alla sua ormai secolare dimora. L’idea è quella di portarla nell’albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga, enorme cittadella dell’assistenza dell’antico regime in cerca di restauro e di nuova funzione. Sulla destinazione culturale dell’albergo non ci sono dubbi: ma il punto è se serva portare lì una biblioteca di conservazione e di ricerca come la Nazionale, invece che realizzarci una grande, moderna, multimediale biblioteca civica, che possa funzionare come un avamposto militante e pulsante di civilizzazione.
Né d’altra parte è sensato togliere la Nazionale dalle stanze in cui la volle Croce. Come mi scrive, desolato, un bibliotecario che ha trascorso una vita in quelle stanze: “Non c’è nessuna preoccupazione per lo stravolgimento dell’identità della Nazionale. Nessuna preoccupazione per i locali sicuramente inidonei che la ospiterebbero. Nessuna preoccupazione per il trauma, inutile, a cui sarebbero sottoposti materiali delicatissimi (si pensi solo ai papiri di Ercolano, o al papiro ravennate, unico al mondo, ai rari, al fondo Manoscritti). Nessuna preoccupazione rispetto ai danni che risulterebbero spostando questi materiali che vivono in condizioni microclimatiche a cui si sono perfettamente adattati”. Una lettera nella quale non manca la pars costruens: “La Nazionale è, per fondi che possiede e per la sua storia, una biblioteca di conservazione che, in assenza di un sistema bibliotecario cittadino, ha svolto un’azione di supplenza, ottemperando a tutta una serie di funzioni che non le erano proprie. È una realtà culturale che vive nel centro della città, ben collegata e vicina alle sedi universitarie. La si lasci continuare a vivere destinandole locali per magazzino librario che sono già presenti e vuoti nello stesso Palazzo Reale (locali già della Corte dei Conti su Via Acton). Si capisca infine che il Mic non è solo preposto alla valorizzazione pecuniaria dei beni culturali italiani ma principalmente alla loro conservazione”.
Già, perché il problema è proprio quello adombrato nell’ultima frase. Il ministro Franceschini ha chiarito che il trasloco (che gode già di un finanziamento di 100 milioni di euro dal Pnrr) serve soprattutto a fare spazio all’espansione del museo di Palazzo Reale: è la valorizzazione che scalza la produzione e redistribuzione di conoscenza. Nella galoppante gentrificazione di Napoli, spazi così centrali, tra Piazza Plebiscito e il San Carlo, sono troppo preziosi per essere lasciati a professori, studiosi, studenti: che non sbigliettano, e non fanno tagliare nastri.
Lo sfratto ai libri della Nazionale va letto nella più ampia strategia di delegittimazione e desertificazione del sistema bibliotecario italiano: quella stessa Biblioteca ha visto il suo personale scemare da 280 a 60 unità, una fin troppo trasparente condanna a morte per fame di lavoro culturale. Un documento coralmente scritto da un folto gruppo di “lettori, lavoratori, studiosi, volontari e visitatori fermamente contrari al progetto di trasferire la Biblioteca Nazionale di Napoli” elenca tutte le moltissime ragioni che sconsigliano categoricamente lo spostamento: dalla tutela dei materiali fragili e degli arredi nati per quel luogo fino allo spreco dei milioni e milioni di denaro pubblico destinato fino a ieri a migliorare la Nazionale dov’è. Alla fine, quel documento chiede “che si abbandoni una volta per tutte questa miope visione politica che distingue beni culturali economicamente produttivi da beni ‘improduttivi’, visione che negli anni ha progressivamente danneggiato le biblioteche (e gli archivi), ridimensionandole, accorpandole a musei o, come in questo caso, decentralizzandole. Noi crediamo fermamente che la cultura sia una e unica, e che sia qualificabile solo in base alla sua capacità educativa e formativa, non certo in base alla sua potenzialità economica».
Questi cittadini non sono soli a crederlo, ci crede anche la Costituzione della Repubblica: con i suoi articoli 3 e 9, che stabiliscono che la cultura serva al pieno sviluppo della persona umana attraverso la ricerca. Proprio la Costituzione su cui giurano i ministri.
Articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 13 giugno 2022. Fotografia dal web.
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