Cresce l’insofferenza in Sardegna per una percezione del maltolto. Succede spesso: ad esempio quando si annunciano i programmi delle grandi opere nella Penisola. Anche per gli immancabili proclami sui vantaggi per l’intera comunità nazionale che produrrebbe ogni infrastruttura ovunque realizzata. In verità scarsi quando c’è di mezzo il mare, come sanno bene i sardi il cui mugugno comincia a diventare rivendicazione nel merito: la lotta dei pastori è emersa, ma è la cima di una malumore più vasto e incubato.
Non è facile ricostruire la serie storica dei lavori pubblici del Paese, pure circoscritta a un tempo limitato, ma qualche clic e zoom bastano per farsi un’idea della disparità di trattamento, pur tenendo conto delle dovute differenze di densità/flussi, ecc.. I più scettici (e temerari) potrebbero, per farsi un’idea, compiere esplorazioni confrontando, che so, il viaggio-supplizio in ferrovia CA-SS con una corsa in Freccia Rossa verso una qualsiasi destinazione: servirebbe per accrescere la coscienza di luogo che conta ormai più della coscienza di classe.
Giusto per farsi un’idea dell’ingordigia occorrerebbe ricostruire l’accentramento di opere non tutte indispensabili e anche devastanti- e delle conseguenti disuguaglianze territoriali, cominciando dal picco registrato dopo l’Unità, proseguito senza soste, con la pianificazione abracadabra e premi per ogni provvisorio vincitore (a partire da Firenze Capitale, 1865-71).
Un sovrappiù di opportunità ubicate dove hanno deciso le élites: spesso nei pressi di casa loro senza nessuna pietà per le comunità più disgraziate di un Paese a due o tre velocità.
Nel Sud la rete autostradale è invariata dal 1990, a fronte di costanti miglioramenti nel Centro-Nord; le ferrovie sviluppate per 45 km ogni 1.000 kmq, a fronte dei 65 nel Nord. Figurarsi la Sardegna.
Uno sbilanciamento a cui ha contribuito la centralizzazione della spesa per un suo più agevole controllo e che ha rappresentato un freno alla distribuzione di risorse per la manutenzione capillare del territorio, la sola “grande opera” che servirebbe al Paese.
Penso che la Sardegna abbia diritto a un risarcimento. La prima vera strada nell’isola fu fatta grazie al governo sabaudo nel 1829, ed è rimasta com’ era per circa un secolo, prima dei due interventi a sud nel primo Novecento. Le rete ferroviaria è grosso modo quella disegnata da Beniamin Piercy dopo il 1880. Oggi chi non dispone di mezzi propri non riesce a muoversi, in Sardegna, men che meno nelle località turistiche. Un disagio che concorre allo spopolamento forse quanto il malessere dei pastori.
C’è poi l’aspetto essenziale dei collegamenti tra la Sardegna e il Continente di cui si parla spesso e di cui i continentali si accorgono nei due mesi estivi. Occorrerebbe documentarlo lo squilibrio, per costringere i sardi - e non solo - a guardare con maggiore sollecitudine agli sprechi di denaro pubblico: in lavori su cui si addensano dubbi spesso fondati e ben argomentati. Le “grandi opere” interrotte per le incertezze sui benefici e i sospetti di corruzione come ad esempio il ferrovecchio MoSe a Venezia (130 tra indagati e arrestati). Sono affari nostri, ci riguardano: riguarda tutti l’Expo di Milano costato circa 3 miliardi - senza il successo previsto - pagati anche da chi abita lontano dalla Lombardia. Un’attenzione speciale per costringere all’ autocritica il partito del sì a tutto a partire dai sostenitori senza riserve del ponte sullo Stretto di Messina rimasto saggiamente sulla carta, dopo una dispendiosa sovrabbondanza di rilevamenti per accertarne la fattibilità.
I conti sul tavolo, senza i quali è vuoto ogni richiamo alla geografia soprattutto perché una fetta cospicua degli investimenti pubblici riguarda i trasporti di persone/merci/energia, questione di vita o di morte per un’isola povera. E più si spreca altrove, meno resta per chi ha reale bisogno di colmare il ritardo.
Come è ormai dimostrato, opere inutili o utili in funzione solo per alimentare il sistema degli appalti sono una sciagura sotto molteplici punti di vista, a partire dal TAV, del cui dibattito siamo oggi spettatori attoniti. Dibattito che diventa ancor più insopportabile per una Sardegna disperata – a causa della sua storica disconnessione -, tanto più col sospetto che simili ingenti spese, altrove possano essere sostenute per rispondere a bisogni creati artificiosamente.
Per oltrepassare il mare i sardi non possono, ovviamente, chiedere ponti avveniristici. Ma possono intanto esigere scali sicuri, navi e aerei con frequenze ragionevoli e costi accettabili. Si potrebbe fare in tempi molto brevi. Ma l’impressione è che questo argomento sia stato sempre sottovalutato, anche nella recente campagna elettorale stravinta dalla Lega, nonostante il rilievo che ha nella vita dei sardi. Avremmo dovuto approfittare di questa occasione, della presenza di autorevoli esponenti del governo di Roma per far loro almeno domande incalzanti non solo sul latte versato nelle strade. Ma non è stato così.
E non è un caso che il primo pensiero del nuovo segretario del PD sia stato per i cantieri TAV.